martedì 7 febbraio 2012

effetto louis vuitton

non che solitamente sia una persona tollerante o ben disposta verso l'accettazione indiscriminata di qualsiasi individuo. e neanche così ingenua da non sapere quali infimi livelli può toccare lo spirito umano. eppure c'è un ambiente, questo della - come la chiamano loro - alta moda, che mi fa rivoltare lo stomaco. letteralmente. posso parlare ora che sono a pochi passi dalla fine del tunnel, so che i miei sforzi di sopportazione avranno una fine e, detto sussurrando, scalpito! certo perchè queste cose non si possono dire ad alta voce, guai se ti sentono fare smorfie di fronte a un (raccapricciante) disegno da migliaia di euro, o se non ti vedono recarti con accettabile frequenza a rifornirti di capi extrafirmati ed extrascontati perchè fai parte dell'elite che li produce. ci vuole una buona dose di autocontrollo per mantenere la calma di fronte a occhi lucidi che basiti provano a spiegarti quale grande opportunità sia aggiudicarti una pezza di cotone con su pataccate di loghi che in negozio troveresti rincarata di sei volte. non osare neanche pensare che tutti quei sedicenti stilisti li vorresti vedere dietro le sbarre, con accusa di furto e circonvenzione di incapaci. invece, in questo mondo al contrario, i criminali vengono venerati come divinità, e il solo fatto di pronunciare il loro nome con sufficiente disinvoltura sembra possa condurti all'estasi suprema.
no, pardon, quello non basta. l'altra attività largamente rinomata è l'uso della lingua. non ovviamente a fini sessuali nè sentimentali, qua l'amore assume significati aulici e platonici, ben al di sopra delle nostre carnalità da banali mortali. la lingua, appunto, ha due funzioni ben più fondamentali. la prima e indiscussa è quella di leccare, qualsiasi fondoschiena purchè si trovi quel decimo di millimetro più in alto del tuo. il pudore, la decenza, l'etica, il rispetto per sè stessi, la vergogna, l'umiliazione..... non esistono realmente, sono frutto dell'invenzione di gente poco ambiziosa, che si accontenta e si illude scioccamente che possa bastare la passione e l'onestà per raggiungere gli stessi traguardi. a questo punto, quando il lavoro di salvaguardia del sè è stato completato con cura, bisogna affrettarsi a sbaragliare la concorrenza. e qui, l'instancabile lingua, completa l'opera riversando badilate di fango (dai, diciamo fango) su tutto ciò che possa eventualmente intralciare il percorso verso la beatificazione. è un processo, questo, molto creativo. sarebbe noioso se effettivamente le persone meritassero le accuse che gli vengono mosse, per cui un costante lavorio di meningi riesce a produrre le condanne più deleterie. molto gettonate, ad esempio, quelle riguardanti l'aspetto fisico, l'abbigliamento e il presunto benessere economico. roba seria, insomma!
neanche a dirlo, le donne sono le regine incontrastate in questo olimpo marcio, che sembra acuire i loro peggiori e meschini sentimenti, a tal punto da contagiare anche l'altro sesso, quello che dovrebbe essere forte, e che alla fine dei giochi, per comodità e convenienza, si cala nella parte con tutte le scarpe (di marca ovviamente).

martedì 10 gennaio 2012

tantovaleammetterlo

sto invecchiando. gravemente.
ho venticinque anni da quasi un mese ormai e ancora devo riprendermi dalla notizia. venticinque maledizione! non è che uno vive per venticinque anni e poi fa finta di niente. bè, sì, ci ho provato, quello era il piano, ma non ha funzionato. un cadavere nascosto sotto un tappeto. me li sento proprio tutti appiccicati addosso, questi anni. credo mi donino anche, ci siamo amati e odiati con passione, ci siamo presi tutto il tempo di cui avevamo bisogno senza mai rassegnarci all'abitudine, ci siamo arricchiti a vicenda e vissuti intensamente.
ma alla fine dei giochi, quando arriva il momento, bisogna fermarsi, fare il bilancio dei danni e contare i feriti. ed è qualcosa di inaspettatamente doloroso. e ora che siamo qua cosa mi racconto? come me lo spiego che ho ancora bisogno di tempo, e che di tempo in realtà non posso prendermene ancora molto?
mi accorgo, guardandomi, di non essere più la stessa. ho smesso di sforzarmi, ho voluto farlo, ho lasciato che la mia intolleranza mi trasportasse su questo lembo di terra incontaminata e selvaggia, su cui cammino nuda e parlo ad alta voce, da cui non voglio scendere dopo averne conquistato a piccoli passi ogni centimetro. i giorni delle belle speranze e delle ingenue illusioni hanno lasciato solo una bava di malinconia che si sta asciugando al sole. ora ho piena coscienza di me e degli altri, so fin dove posso spingermi io, so dove possono arrivare loro. se i nostri traguardi sono vicini, continueremo a camminare insieme, altrimenti no. se vedremo il mondo dalla stessa prospettiva, potremo continuare a condividerla insieme, altrimenti no.
rispondo vagamente, con sincero e cortese distacco, ai languidi stucchevoli altruismi di convenienza. ho deciso che imparerò a seguire le regole, so essere civile e educata, ho imparato a recitare la parte e a tenere in ordine la facciata che i quotidiani rapporti formali richiedono. e questo è il mio limite, oltre non vado. falsi sorrisi per gente falsa, vuota, povera di spirito e di fantasia, che non sa mettersi in discussione e in compenso ha sempre qualche cattiva parola pronta per gli altri: non capisco perché dovrei sprecare con loro le mie energie, o anche solamente fingere di averne intenzione. sarebbe solo un danno per la mia già compromessa reputazione del genere umano, il colpo di grazia per la mia misantropia.
arriva il momento in cui finalmente i conti tornano, ti osservi e sorridi, allunghi le braccia e scopri che è già tutto là, a portata di mano, quello che ti serve per essere completa. va bene, non proprio tutto, ma quasi. in ogni caso sono abbastanza vecchia da essere in grado di rispettare i miei principi, ora vorrei solo sgombrare la mente, ma per quello dovrò inventarmi un nuovo traguardo, questo l'ho mancato.

domenica 11 dicembre 2011

io mi sento altro


Io con l'autoritratto non sono guarita, mi sono ribellata. La mia esperienza con l’autoritratto fotografico è nata per caso, almeno apparentemente. Lavoravo come modella, quindi abituata a essere immortalata e a rivedermi in un’immagine scattata da altri. Naturalmente, parlo di foto perfette, dove il corpo è solo un mezzo comunicativo. Un’immagine pubblicitaria non deve essere interpretata o capita, deve rimandare l’idea del bello, del perfetto, del risolto. Deve suscitare il desiderio di avere quell’abito o quella macchina, deve vendere una suggestione. Io stessa guardandomi in quegli scatti non mi riconoscevo. Ho avuto un percorso tortuoso e lungo di anoressia. Un periodo durato quindici anni in cui ho fatto del mio corpo la mia identità. «Piacere sono Anna, sono anoressica». Ho lasciato che per anni il mio corpo fosse la mia identità, un'immagine traballante e smunta che lasciava poco spazio all'interpretazione. Ma non solo. In me c’è sempre stata una domanda. Com’è possibile avere una visione così diversa di me e negarmi completamente, invece, davanti allo specchio? Così ho preso una macchina fotografica e ho iniziato a ritrarmi. Si ha bisogno di vedere il dolore in faccia per riconoscerlo, bisogna averlo proiettato davanti agli occhi. Finché non sei piegato a terra nessuno si ferma. Così io mi sono piegata e ho costretto l'amore a fermarsi. I grassi non piangono, i grassi ridono e fanno i giullari. A ognuno il suo ruolo, e spesso questo ruolo passa attraverso la nostra immagine. Io ero grassa ed ero grassa per lo stesso motivo per cui poi sono diventata anoressica. Non per somigliare a una modella, ma per andarmi a prendere tutto quello che una modella sembra avere o che ci fanno credere che abbia. Attenzione, cura, rispetto. Amore. Ero una bambina che soffriva già di nostalgie, pensavo a quando mio padre sarebbe morto e lo abbracciavo piangendo prima di dormire dicendogli «non morire». Sono cresciuta con un buco nero al centro del cuore e ho cercato di colmarlo con il cibo. Mangiavo per smettere di soffrire, per non sentire quel buco nero che divorava ogni inizio di gioia. All'ennesima pacca sulla spalla, però, ho smesso di mangiare e ho cominciato a digiunare. Più dimagrivo e più gli altri mi vedevano, più sparivo e più gli altri riuscivano perfettamente a focalizzare dove fossi. Questo è uno dei punti più pericolosi di questo male. Perché mentre cercano di farci capire quanto sia sbagliato non mangiare, stiamo ottenendo proprio quell'attenzione che bramiamo e la stiamo ottenendo proprio con quel mezzo che ci dicono essere sbagliato. Se dovessi spiegare brevemente l'anoressia direi che è un'assenza cronica d'amore, è prendere tutto il male del mondo e pensare di esserne la causa e l'effetto allo stesso tempo. È il sentirsi insufficienti all'amore, inadeguati per una vita "perfetta", perennemente a un passo dall'essere felici. Perché quella felicità non la merito, non so curarla. Nelle mie mani muore tutto. Forse nessuno ha avuto tempo per insegnarmi che il concetto di felicità non è univoco. Poi, un giorno, per caso e finalmente, scopro anche la fotografia. Ho appena lasciato mio marito, ho due bambini piccoli da crescere, mio padre è morto. Devo tornare in quel paese da cui sono fuggita. Non c'è nulla da scoprire, conoscere, se non me stessa. Bene. Il primo scatto che mi sono fatta era di prova, il secondo per capire come la luce si riflettesse sulla mia coscia. Non lo sapevo ma stava cominciando un viaggio meraviglioso. Autoritratto fotografico. Pensieri su pellicola. Pensieri sporchi e mal ridotti, pensieri da cui partire per cercare la mia sincerità e il mio perché. Ho guardato l'amore e c’ho visto un cane rabbioso che si attacca all'osso del cuore e mi sono perdonata tutto il male ricevuto. L'ho capito, forse, l'ho provocato anch'io in altri. Ecco, qualcosa si muove. Quella sensazione di disagio non sono io, ma è quello che gli altri mi hanno fatto credere, con modi e parole impercettibili. Un lavoro di anni, di frasi disseminate qua e là. Di insegnamenti subliminali. Io mi sono liberata fotografando le mie occhiaie, le mie tette appese, le mie ossa. Ho aperto quella gabbia di cui spesso ci lamentiamo, che ci uccide ogni giorno, ma che tutti in qualche maniera alimentiamo. La fotografia ha un grande compito.Le donne che fotografano se stesse o altre donne lo hanno. Rendere il proprio senso dell'amore, rendere una visione tridimensionale dell'essere donna. Invece, siamo le prime che «appena ho visto il mio cucciolo e l'ho stretto tra le mie braccia, l'ho amato all'infinito. Perché quando allatto è un momento così speciale». Devo sentirmi un mostro se io, invece, appena l'ho visto ho pensato «E adesso cosa gli racconto?». Ho pensato anche alla bellezza di quello che saremmo diventati, al miracolo di un nuovo amore da far crescere, ma che in quel momento era solo istinto e gioia . E che finalmente le contrazioni erano finite e il mio utero era tornato a una dimensione umana. Poi l'allattamento è stata un'ulteriore prova, perché rivolevo il mio corpo, le mie sigarette, il mio caffè, perché il capezzolo mi faceva male e la mastite mi tormentava. E perché pesavo venti chili di più e mi facevo schifo? E intanto non ero felice. Per niente. Nuova vita, nuove regole, nuovi ritmi. Posso avere il tempo di abituarmi? O intanto che trovo il nuovo equilibrio devo sentirmi in colpa, perché nel cambiare un pannolino non ci trovo niente di poetico? Siamo le prime che non si perdonano, che davanti a un caffè si raccontano balle, una gara a chi ha fatto la vacanza più chic. Guardatevi per prime, non aspettate che qualcuno lo faccia per voi, altrimenti sarete costrette a riconoscervi in una visione parziale, distorta, opportunistica. Per rifiutare tutto questo ho passato anni duri e senza sconti. La fotografia è stata un'amica, un'immagine di me che mi assolveva ogni volta. Ho smesso di guardare gli altri in relazione a me e ho iniziato a guardarmi in relazione agli altri. Ho imparato i miei gusti, ho rispettato i miei tempi, qualche volta non ce la faccio a fare nulla così chiedo ai miei figli di avere pazienza. E loro si sentono liberi di fare altrettanto. Fotografo l'assenza e riporto le persone a casa, mio padre su tutti. Fotografo la ruga, la pelle che sa di sigarette. Questa sono. Fotografo il mio corpo per arrivare a capire una sensazione dentro. Luce, contesto, inquadratura, non sono mai un caso, una ricerca, una premeditazione, sono sempre il risultato di quel momento. Spesso riesco a vedermi solo dopo giorni e giorni , eppure ho imparato a non disperarmi. L'immagine che ho di me, che gli altri hanno di me, s'incontra in questi scatti. Se tutti ammettessero invece di fingere, se tutti ci permettessero invece di esigere, forse ci sentiremmo tutti più belli, ognuno per quello che è davvero. Perché i mostri veri sono quelli che puntano il dito, che ti fanno sentire inadeguata, che ti fanno credere che esista un mondo perfetto, dove le mamme hanno il grembiulino a quadretti rossi e bianchi, dove si fa colazione come nelle pubblicità, dove le tovaglie sono tutte smacchiate, si respira odore di fiori d'arancio in ogni angolo della casa e i mariti tornano a casa stanchi e ci salutano con un bacio. Illusioni dietro le quali si arranca per tutta la vita. Una società in cui le donne non possono invecchiare, ingrassare, dove la lotta alla cellulite è la priorità e nelle pubblicità ci fanno parlare con la tazza del cesso complimentandoci per quanto sia linda e pinta e subito dopo un'altra in cui simuliamo l'orgasmo per vendere un'auto. Io mi sento altro. Niente è più amore che dire «non sono molto, sono quello che vedi, ma questo poco che sono ti ama totalmente». Se l'avessero fatto con me avrei risparmiato anni di vita spesi a cercare quella perfezione che non c'è neanche in chi la esige. E per quanto banale questo concetto possa sembrare, io spenderò il resto della mia vita a diventare quella che sono e a prendere un appunto quotidiano sui miei post it. «Sono già tutto quello che serve per essere amata». Poi se mi rimane del tempo mi spalmo l'anticellulite sulle cosce.

anna fabroni

Anna Fabroni (testo e foto) su Women Mag

mercoledì 23 novembre 2011

tempi duri per il femminismo

non c'è spazio non c'è più spazio non ci sta più niente tutto è già passato devono ancora succedere tutte le cose e già le ho perse forse non voglio camminare se poi non potrò fermarmi e mettere tutto in discussione sarà una valanga sarà così una gigantesca palla rotolante di respiri.
ho paura.
una fottuta paura.
e le dita troppo larghe.
ora conosco il panico e l'inerzia sono nervosa agitata molesta scontrosa ma non voglio che se ne accorgano devono continuare a credere che sia apatica così non faranno domande per cui non ho ancora inventato risposte convincenti non devo parlare per forza se voglio posso guardare per terra e usare la vecchia scusa.
oggi ho bevuto ricordi.
e un po' di Dom Pérignon ma era amaro.
a volte mi chiedo come sarebbe stato nascere nell'altra metà del cielo essere un uomo tornare a casa a piedi a qualsiasi ora della notte non riuscire a capire la malizia l'invidia la superficialità di continue lamentele l'insicurezza estrema forse dovevo nascere uomo avrei apprezzato molte più cose tutte le cose che non sarei riuscito a capire sarei stato indipendente senza dovermene giustificare diretto senza essere acido avrei continuato a guidare allo stesso modo senza sentirmi dire che guido come un uomo mangiare scopare come e quanto volevo senza essere considerato alieno invece di contemplare questa congenita debolezza e sentirmi così lontana e sconcertata dal mio emisfero.
non è più il caso di ostinarsi.
ora qualcosa - se lui vuole - potrebbe cambiare.

libertà

continuerò a farmi scegliere.

"Ho sempre voluto vivere la vita di un uomo nel corpo di una donna" 
Diane von Furstenberg

lunedì 7 novembre 2011

sabato 22 ottobre 2011

diario di un viaggio vischioso e complesso


20 settembre

Oggi siamo arrivati a Dacca, nel giorno dell'anniversario dei miei.
Ci ha assalito una cappa di aria torrida che ha appannato gli obbiettivi delle macchine fotografiche, ci ha tolto il respiro e ha reso appiccicoso ogni minimo movimento.
Tra la ressa e le mani che si intrufolavano attraverso le grate di ferro abbiamo cercato un taxi che potesse contenere 9 persone e altrettanti bagagli. Quando le valigie erano già state caricate abbiamo realizzato che lo spazio che rimaneva non era neanche vagamente sufficiente per trasportare anche noi.
Eppure, accartocciati e sudati, abbiamo affrontato in questa gabbia di lamiera arrugginita l'intrico inimmaginabile di mezzi di ogni tipo, e chiedendo informazioni ad ogni curva abbiamo raggiunto la YWCA Guest House. Adesso scrivo sotto la furia dei due ventilatori a soffitto, che non riescono ad asciugare il sudore ma procurano una parvenza di aria fresca, che in questo momento sembra manna dal cielo.
Il tassista aveva la barba rossa, l'abbiamo notato tutti, perchè non era il solo. Molti uomini qua se la tingono, cercheremo di capirne il motivo, ma probabilmente è solo una moda.
La prima percezione che ho è quella dell'effimera considerazione che tutti hanno per la vita umana. La guida e la strada non hanno regole, nessun accenno a corsie, precedenze, attraversamenti. C'è una moltitudine di mezzi di trasporto esilarante, che si incastrano a vicenda sfidando ogni legge fisica e riuscendo assurdamente a non scontrarsi procedendo appiccicati e ritmati dal suono incessante dei clacson. E nell'intrico di lamiere elemosinano pochi centimetri di spazio i venditori di ambra (un frutto che intagliano a forma di fiore), pop-corn, pani (acqua) in bottiglia e giornali. Si appendono ai finestrini di autobus iperstipati alla ricerca di compratori, e bussano ai finestrini chiusi del nostro taxi che intrappolano tenacemente i benefici di un'aria condizionata non sperata.

Dacca

I clacson hanno smesso di suonare. Da quando è calato il sole la città si è pian piano ammutolita, si sentono solo suoni sporadici, stanchi dopo una giornata di piena attività. I clacson sono la colonna sonora di questo posto, non esiste un solo istante in cui si acquietano gli amministratori indiscussi di questa improbabile viabilità.
Sono ancora sotto le pale, stasera ho fatto la doccia con mezzo secchio d'acqua fredda, mangiato senza l'uso delle posate e lavato i denti con un bicchiere di acqua bollita. Si può vivere bene (?) anche con poco.


21 settembre

Ridicolo imbarazzo da occidentali. Siamo su un "taxi" a rischiare la pelle e ci si riempiono gli occhi di emozioni. Ma forse è maleducato mettersi a far foto alle persone come se fossero fenomeni da baraccone. Poi un venditore di frutta accovacciato sotto un albero mi punta addosso un cellulare, scatta, e mostrando la foto ai vicini inizia a sogghignare. Proprio ora un "autobus" ha frenato nel bel mezzo di questa strada a quattro corsie per far scendere una mezza dozzina di ragazzi splendidamente sorridenti che hanno accerchiato le nostre macchine e ci scattano fotografie. Ora stanno correndo per risalire sul mezzo che li ha aspettati e può riprendere la marcia. Ci salutiamo. E ci mettiamo a far foto anche noi!

risciò

Credo di sapere tutto su Kaka, ora.


22 settembre

I bambini non si toccano. A piedi scalzi corrono e saltano sui gradini e per i viottoli infangati, calpestano fogni di giornali sporchi di paan, sterco di animali, mattoni sbeccati e avanzi di cibo. Sono in estasi. Ci osservano addentrarci a fatica tra le loro baracche buie e minuscole e ci sgusciano a fianco, tra mura in mattoni che a stento permettono il passaggio a noi, loro si inventano spazi tra le nostre gambe e sotto le borse e l'attrezzatura che ci portiamo dietro. Ci superano solo per voltarsi, guardarci negli occhi e donarci il sorriso più innocente che hanno. Alcuni hanno imparato un paio di frasi in inglese, how are you? e what's your name?, e ce le urlano da ogni angolo, per poi scoppiare a ridere come pazzi. Sono affascinati dalle nostre macchine fotografiche. Si chiamano a vicenda e si stringono ad amici e fratelli in attesa di essere immortalati. Hanno occhi giganti di un colore impressionante, nutriti dalla luce del loro sincero stupore. La visita allo slum di rifugiati pakistani deve concludersi perchè un uomo islamico è infastidito dalla nostra presenza e soprattutto dalle telecamere che riprendono le loro donne. Non serve spiegargli che lo scopo della nostra visita era quello di documentare le fasi del ricamo ari praticato dagli uomini della basti, all'interno di claustrofobiche stanzette buie. La nostra guida è una donna cattolica che si prende cura degli abitanti di questa baraccopoli e si occupa di vendere le loro lavorazioni. Ed è lei che a questo punto ci conduce attraverso il labirinto di passaggi terrosi schivando capre, evitando pozzi fognari profondissimi che si aprono all'improvviso al centro del passaggio e cercando intanto di salutare la moltitudine di gente stipata sulle soglie che tocca timorosa i nostri vestiti e ci inebria di sorrisi. I bambini ce li trasciniamo dietro ancora per un bel po' una volta usciti. Non vogliono che ce ne andiamo, siamo il loro diversivo. Ci stringono in continuazione le mani e una, con la sua infinita dolcezza, vince la timidezza e si appropria del mio braccio camminandomi docilmente a fianco, finchè un uomo non la sgrida e la fa correre con le sue amiche in direzione di casa.

slum


23 settembre

La gente ha troppe esigenze. Forse quando si viaggia bisognerebbe mettere da parte i bisogni materiali. Qua dove gli animi sono così semplici e sopravvivono con il minimo indispensabile quest'attaccamento ai consolidati lussi occidentali lo trovo fuori luogo e arrogante.

Come sempre l'acqua riesce a mettermi in pace con il mondo. Procediamo tranquillamente tra stagni e risaie, la luce è a ogni metro più fioca, e questi specchi d'acqua riposano placidamente nella frescura della sera. Li vedo susseguirsi attraverso il finestrino semiaperto, con i loro isolotti di vegetazione che creano zone d'ombra e offrono riparo agli uccelli. C'è un sentiero che spacca in due una risaia, e una donna con un sari celeste si è seduta a riposare con le gambe raccolte e lo sguardo perso nel vuoto. Dà le spalle alla strada ma è come se riuscissi a vedere l'espressione del suo volto. Vorrei andare a sedermi accanto a lei, condividere il suo silenzio, scendere da questa lussuosa auto con i finestrini oscurati e l'aria condizionata che i miei compagni di viaggio insistono per tenere accesa. Ci è indifferente, ed è questo quello che più mi affascina, un fiore azzurro in una distesa smeraldo, che assapora la solitudine. 
Oggi è stata una giornata commovente. Mi sento al sicuro in questi posti, paradossalmente. La gente è così spontanea e genuina che mi viene istintivo affidarmi completamente a lei. I parenti di Shourov ci hanno accolto nella loro casa con un'infinita dolcezza ed enormi quantità di cibo cucinato da loro. Hanno una bellissima casa, un figlio elegantemente vestito che ci fa da interprete e dice che il suo sogno sarebbe quello di venire a studiare ingegneria a Milano. Sono tutti a nostra totale disposizione, ci scarrozzano in giro per Comilla finchè non otteniamo di essere portati nei villaggi dei tessitori di khadi.

telaio khadi


25 settembre

Non si appoggiano al sellino. Lo hanno ma non lo usano. Pedalano sospesi in aria, alcuni i pedali li sfiorano soltanto. Il lungi sudato aderente al bacino, una camicia logora in totale disaccordo cromatico, sciarpa legata in vita all'occorrenza usata come turbante e sandali consunti e infangati. E' uno spettacolo sensuale vederli destreggiarsi tra dossi, fossi e ostacoli di lamiera arrugginita. Curvano con leggeri colpi d'anca e i più audaci approfittano di ogni sosta per voltarsi, appoggiandosi sulla canna della bicicletta, e tu no puoi fare altro che ricambiare i loro sorrisi, ed essere grata a quegli occhi sinceri che lavano via il senso di colpa derivante dallo sfruttamento fisico. Ieri sera pensavamo di esserci persi. Dopo le 11 di sera le strade si svuotano ed è difficile trovare qualcuno disposto a riportarti a casa sfidando l'oscurità della città, ma i nostri rikscioala ci hanno caricati e umilmente hanno cercato la via del ritorno. Ieri sera si sedevano sul sellino, parlavano tra di loro e ridevano, e a tratti improvvisavano gare per le strade deserte. Mi da un senso di totale sicurezza la purezza di questa gente, ho adorato la familiare sensazione di non ritrovare la via di casa più del solito, avrei girato per ore su quei trabiccoli con l'aria della sera in faccia, godendo della bellezza incontaminata di un corpo madido, di un palazzo diroccato, dei gusci di cocco rimasti ai lati della strada. Quest'ondeggiare sinuoso di gambe magre e lisi tessuti è provocante come i preliminari che precedono un amplesso.

traffico

"lei è già sulla tua onda
e fa che il fiume ti risponda
che da sempre siete amanti"


30 settembre

I bambini hanno comprato la coca cola e ora sono contenti, e si può finalmente tornare a casa. Noi nel frattempo inspiravamo le esalazioni della fogna che costeggia il carcere accerchiati dai soliti sguardi dei curiosi con il sudore che ci colava in gocce appiccicose lungo le gambe. Oggi è venerdì, che qua equivale alla nostra domenica, ma alcune donne sono venute a lavorare lo stesso, anche se non ne avevano voglia, e si vedeva; dopo pranzo ci hanno salutato per ritornare dalle famiglie. 
Il workshop finirà lunedì, ma già oggi faticavamo a trovare a tutte un'occupazione. Abbiamo dato tutti l'anima nei primi giorni, ne son venuti fuori lavori a volte inguardabili, ma nel complesso interessanti, alcuni davvero stupendi. Ho capito perchè è folle pretendere la perfezione nelle finiture quando si parla di mercato equo. Le condizioni di lavoro sono allucinanti e insostenibili per lunghi periodi. Le donne lavorano per terra, su stuoie dilaniate dall'usura a diretto contatto col pavimento di cemento. Il caldo e l'umidità ostacolano i movimenti e impigriscono i pensieri. Questa scomoda abitudine di camminare scalzi a lungo andare provoca dolore ai piedi e li insudicia in modo vomitevole. La Leti dice che non torneranno più del loro colore originario. Mi sa che ha ragione. Poi c'è l'elettricità, o meglio, non c'è! Ti concede sprazzi di attività interrotti da intere ore di black out, in cui i ventilatori si bloccano, il ferro da stiro è inservibile, e se la luce del giorno è insufficiente non si riesce neanche a distinguere i colori, figuriamoci ad infilare un ago. Eppure queste donne si adattano a tutto questo,e ad altro, come ad esempio il tragitto a piedi dal loro villaggio, e l'ostilità delle famiglie, per guadagnare qualche taka, un po' di dignità e scambiarsi pettegolezzi.
Tutto sommato sono state carine con noi, hanno apertamente disprezzato ogni nostra proposta perchè in totale contrasto con il loro gusto e con ciò che hanno sempre prodotto. Le facce schifate e le risatine di scherno alle nostre spalle ormai sono diventate parte del gioco. All'inizio cerchi di ragionare con loro, ma di fronte al netto rifiuto diventi stronza despota e se i tempi devono essere compressi in questi dieci giorni rimane poco spazio per le moine. Non si dovrebbe trattare di imposizione, ma della trasmissione di una nuova estetica globalizzata che possa speranzosamente seppellire lo stereotipo di artigianato del terzo mondo. Ma loro sono cocciute, o orgogliose, o pigre, non te la danno vinta senza lottare. E noi abbiamo lottato. Ora siamo sfinite, mancano ancora un paio di giorni, procederà tutto come deve e con maggior calma adesso, continueremo a coltivare questa promiscuità di sguardi, spinte e sorrisi affettuosi. In fondo ci stiamo affezionando a loro, e loro hanno trasformato la curiosità dei primi giorni in diffidenza, ma la stanno impastando con benevolenza, amicizia e comprensione, come fanno quando mischiano il riso col daal. Tra un po' le rincontreremo a cena, bardate nei loro sari, senza i quali diventano timide e vulnerabili. Ci prenderanno le mani e ci sommergeranno di parole in bengali, convinte che possiamo capirle. E, forse, ormai davvero le capiamo.

workshop


5 ottobre

Allora, nell'ordine. Un'ora di macchina fino al confine, e fin qua tutto bene, a parte la predilezione dell'autista per la guida al cellulare. Dopodichè stazionamento in due tre uffici per il controllo passaporti e la compilazione dei documenti, uno più fatiscente dell'altro. I funzionari ci offrivano patatine e sedie. Carini. Forse speravano invano in una mancia. Tra un edificio e l'altro siamo passati tra cortili abbandonati e passaggi sospetti. Concluso l'attraversamento del confine, fuori dall'ultimo ufficio abbiamo cambiato le taka in rupie, fumato una sigaretta e scattato foto. Poi breve camminata verso i motorikscio che ci attendevano fiduciosi. In uno spazio vitale calcolato per tre persone ci siamo entrati in cinque più quattro bagagli. Quindi ovviamente appena percorsi un paio di metri uno dei due mezzi ha bucato. Assistiamo al cambio di ruota sotto al cartello "obey traffic rules". Puramente decorativo. Ripartiamo. 
Ora siamo sul treno, la stazione era vicina, abbiamo pagato 128 rupie otto biglietti per Calcutta. Il nostro vagone non consente l'ingresso agli uomini. Riccardo è salito su quello successivo.

treno confine


8 ottobre

Domani, o meglio stanotte, partiamo, finalmente!
Calcutta è stata una città difficile. A pensarci l'intero viaggio è stato estenuante, non so dire quanto questa ultima tappa abbia aggravato la situazione, ma sento il corpo pesante, il corpo e i pensieri. Ho voglia di andarmene, ci sono troppe cose a cui dovrei abituarmi, ma non ne ho voglia, sono stanca. Mi manca la civiltà, dei vestiti puliti e soprattutto asciutti e una pedicure. Non ne posso più di sudare, fare attenzione a cosa calpesto, essere stordita dal suono dei clacson e sentire e vedere gente che sputa ad ogni passo.
Voglio un cameriere che mi sorrida spontaneamente e non perchè mi vede come un'attrazione. Ho bisogno che qualcuno capisca quello che dico o almeno si sforzi di farlo.
Questo è un posto complicato, andrebbe vissuto più a lungo, con uno spirito diverso e un'altra compagnia. Per ora non è altro che snervante, e mi spiace, perchè intuisco che è denso di potenziale, si percepisce il dinamismo culturale negli occhi svegli e profondi dei suoi abitanti.
Tra qualche ora torno ai miei soliti giorni. Neanche questa prospettiva mi alletta, ma se non altro potrò tornare a essere pigra. 

fiume

martedì 19 luglio 2011

la Custode dElla cLessIdra

lampione

ho l'impressione che più sento il bisogno di esprimermi,
e più non trovo le parole per farlo..
da dove parto?
sta succedendo di tutto
e tutto insieme
e tutto troppo in fretta
e tutto troppo intensamente
.. tutto.
..troppo.

non voglio banalizzare le sensazioni
forse, se le parole non nascono spontanee, bisogna lasciarle in pace.
non cercherò di stanarle, lascerò che questa linfa continui a scorrere silenziosa e aspetterò il giorno in cui si impadronirà delle mie vene.

da bambina quando mi facevano male le ginocchia mia mamma diceva che era perchè stavo crescendo, e le ossa si stavano allungando.
sento ancora lo stesso dolore.

venerdì 10 giugno 2011

delizie in solitaria

succede sempre così, partendo dai peggiori presupposti va a finire che si scoprono nuovi sapori.
c'è da dire che io e il mio frigo abbiamo una forte affinità spirituale e una perfetta corrispondenza di intenzioni, ma stasera è avvenuto uno dei nostri più intensi idilli.

..la mezza cipolla rossa che era avanzata dall'ultimo soffritto, cinque ciliegini superstiti in fondo al ripiano, e la preziosa concessione di una porzione di orecchiette fresche.. come a dire: non mi aspettavo di vederti, ma in fondo ci speravo..
..io, dal canto mio, non ero nelle condizioni di poter pretendere: tuta sgualcita, turbante in testa e piedi sporchi a forza di zampettare scalza.

ma avevo un'immagine che mi galleggiava ancora in testa, il mio organismo richiedeva carboidrati e mi stavo volendo particolarmente bene..

orecchiette con cipolle rosse in agrodolce e filetti di pomodoro

e così fu: orecchiette con cipolle rosse in agrodolce e filetti di pomodoro!
..l'amore esiste!