domenica 11 dicembre 2011

io mi sento altro


Io con l'autoritratto non sono guarita, mi sono ribellata. La mia esperienza con l’autoritratto fotografico è nata per caso, almeno apparentemente. Lavoravo come modella, quindi abituata a essere immortalata e a rivedermi in un’immagine scattata da altri. Naturalmente, parlo di foto perfette, dove il corpo è solo un mezzo comunicativo. Un’immagine pubblicitaria non deve essere interpretata o capita, deve rimandare l’idea del bello, del perfetto, del risolto. Deve suscitare il desiderio di avere quell’abito o quella macchina, deve vendere una suggestione. Io stessa guardandomi in quegli scatti non mi riconoscevo. Ho avuto un percorso tortuoso e lungo di anoressia. Un periodo durato quindici anni in cui ho fatto del mio corpo la mia identità. «Piacere sono Anna, sono anoressica». Ho lasciato che per anni il mio corpo fosse la mia identità, un'immagine traballante e smunta che lasciava poco spazio all'interpretazione. Ma non solo. In me c’è sempre stata una domanda. Com’è possibile avere una visione così diversa di me e negarmi completamente, invece, davanti allo specchio? Così ho preso una macchina fotografica e ho iniziato a ritrarmi. Si ha bisogno di vedere il dolore in faccia per riconoscerlo, bisogna averlo proiettato davanti agli occhi. Finché non sei piegato a terra nessuno si ferma. Così io mi sono piegata e ho costretto l'amore a fermarsi. I grassi non piangono, i grassi ridono e fanno i giullari. A ognuno il suo ruolo, e spesso questo ruolo passa attraverso la nostra immagine. Io ero grassa ed ero grassa per lo stesso motivo per cui poi sono diventata anoressica. Non per somigliare a una modella, ma per andarmi a prendere tutto quello che una modella sembra avere o che ci fanno credere che abbia. Attenzione, cura, rispetto. Amore. Ero una bambina che soffriva già di nostalgie, pensavo a quando mio padre sarebbe morto e lo abbracciavo piangendo prima di dormire dicendogli «non morire». Sono cresciuta con un buco nero al centro del cuore e ho cercato di colmarlo con il cibo. Mangiavo per smettere di soffrire, per non sentire quel buco nero che divorava ogni inizio di gioia. All'ennesima pacca sulla spalla, però, ho smesso di mangiare e ho cominciato a digiunare. Più dimagrivo e più gli altri mi vedevano, più sparivo e più gli altri riuscivano perfettamente a focalizzare dove fossi. Questo è uno dei punti più pericolosi di questo male. Perché mentre cercano di farci capire quanto sia sbagliato non mangiare, stiamo ottenendo proprio quell'attenzione che bramiamo e la stiamo ottenendo proprio con quel mezzo che ci dicono essere sbagliato. Se dovessi spiegare brevemente l'anoressia direi che è un'assenza cronica d'amore, è prendere tutto il male del mondo e pensare di esserne la causa e l'effetto allo stesso tempo. È il sentirsi insufficienti all'amore, inadeguati per una vita "perfetta", perennemente a un passo dall'essere felici. Perché quella felicità non la merito, non so curarla. Nelle mie mani muore tutto. Forse nessuno ha avuto tempo per insegnarmi che il concetto di felicità non è univoco. Poi, un giorno, per caso e finalmente, scopro anche la fotografia. Ho appena lasciato mio marito, ho due bambini piccoli da crescere, mio padre è morto. Devo tornare in quel paese da cui sono fuggita. Non c'è nulla da scoprire, conoscere, se non me stessa. Bene. Il primo scatto che mi sono fatta era di prova, il secondo per capire come la luce si riflettesse sulla mia coscia. Non lo sapevo ma stava cominciando un viaggio meraviglioso. Autoritratto fotografico. Pensieri su pellicola. Pensieri sporchi e mal ridotti, pensieri da cui partire per cercare la mia sincerità e il mio perché. Ho guardato l'amore e c’ho visto un cane rabbioso che si attacca all'osso del cuore e mi sono perdonata tutto il male ricevuto. L'ho capito, forse, l'ho provocato anch'io in altri. Ecco, qualcosa si muove. Quella sensazione di disagio non sono io, ma è quello che gli altri mi hanno fatto credere, con modi e parole impercettibili. Un lavoro di anni, di frasi disseminate qua e là. Di insegnamenti subliminali. Io mi sono liberata fotografando le mie occhiaie, le mie tette appese, le mie ossa. Ho aperto quella gabbia di cui spesso ci lamentiamo, che ci uccide ogni giorno, ma che tutti in qualche maniera alimentiamo. La fotografia ha un grande compito.Le donne che fotografano se stesse o altre donne lo hanno. Rendere il proprio senso dell'amore, rendere una visione tridimensionale dell'essere donna. Invece, siamo le prime che «appena ho visto il mio cucciolo e l'ho stretto tra le mie braccia, l'ho amato all'infinito. Perché quando allatto è un momento così speciale». Devo sentirmi un mostro se io, invece, appena l'ho visto ho pensato «E adesso cosa gli racconto?». Ho pensato anche alla bellezza di quello che saremmo diventati, al miracolo di un nuovo amore da far crescere, ma che in quel momento era solo istinto e gioia . E che finalmente le contrazioni erano finite e il mio utero era tornato a una dimensione umana. Poi l'allattamento è stata un'ulteriore prova, perché rivolevo il mio corpo, le mie sigarette, il mio caffè, perché il capezzolo mi faceva male e la mastite mi tormentava. E perché pesavo venti chili di più e mi facevo schifo? E intanto non ero felice. Per niente. Nuova vita, nuove regole, nuovi ritmi. Posso avere il tempo di abituarmi? O intanto che trovo il nuovo equilibrio devo sentirmi in colpa, perché nel cambiare un pannolino non ci trovo niente di poetico? Siamo le prime che non si perdonano, che davanti a un caffè si raccontano balle, una gara a chi ha fatto la vacanza più chic. Guardatevi per prime, non aspettate che qualcuno lo faccia per voi, altrimenti sarete costrette a riconoscervi in una visione parziale, distorta, opportunistica. Per rifiutare tutto questo ho passato anni duri e senza sconti. La fotografia è stata un'amica, un'immagine di me che mi assolveva ogni volta. Ho smesso di guardare gli altri in relazione a me e ho iniziato a guardarmi in relazione agli altri. Ho imparato i miei gusti, ho rispettato i miei tempi, qualche volta non ce la faccio a fare nulla così chiedo ai miei figli di avere pazienza. E loro si sentono liberi di fare altrettanto. Fotografo l'assenza e riporto le persone a casa, mio padre su tutti. Fotografo la ruga, la pelle che sa di sigarette. Questa sono. Fotografo il mio corpo per arrivare a capire una sensazione dentro. Luce, contesto, inquadratura, non sono mai un caso, una ricerca, una premeditazione, sono sempre il risultato di quel momento. Spesso riesco a vedermi solo dopo giorni e giorni , eppure ho imparato a non disperarmi. L'immagine che ho di me, che gli altri hanno di me, s'incontra in questi scatti. Se tutti ammettessero invece di fingere, se tutti ci permettessero invece di esigere, forse ci sentiremmo tutti più belli, ognuno per quello che è davvero. Perché i mostri veri sono quelli che puntano il dito, che ti fanno sentire inadeguata, che ti fanno credere che esista un mondo perfetto, dove le mamme hanno il grembiulino a quadretti rossi e bianchi, dove si fa colazione come nelle pubblicità, dove le tovaglie sono tutte smacchiate, si respira odore di fiori d'arancio in ogni angolo della casa e i mariti tornano a casa stanchi e ci salutano con un bacio. Illusioni dietro le quali si arranca per tutta la vita. Una società in cui le donne non possono invecchiare, ingrassare, dove la lotta alla cellulite è la priorità e nelle pubblicità ci fanno parlare con la tazza del cesso complimentandoci per quanto sia linda e pinta e subito dopo un'altra in cui simuliamo l'orgasmo per vendere un'auto. Io mi sento altro. Niente è più amore che dire «non sono molto, sono quello che vedi, ma questo poco che sono ti ama totalmente». Se l'avessero fatto con me avrei risparmiato anni di vita spesi a cercare quella perfezione che non c'è neanche in chi la esige. E per quanto banale questo concetto possa sembrare, io spenderò il resto della mia vita a diventare quella che sono e a prendere un appunto quotidiano sui miei post it. «Sono già tutto quello che serve per essere amata». Poi se mi rimane del tempo mi spalmo l'anticellulite sulle cosce.

anna fabroni

Anna Fabroni (testo e foto) su Women Mag