sabato 22 ottobre 2011

diario di un viaggio vischioso e complesso


20 settembre

Oggi siamo arrivati a Dacca, nel giorno dell'anniversario dei miei.
Ci ha assalito una cappa di aria torrida che ha appannato gli obbiettivi delle macchine fotografiche, ci ha tolto il respiro e ha reso appiccicoso ogni minimo movimento.
Tra la ressa e le mani che si intrufolavano attraverso le grate di ferro abbiamo cercato un taxi che potesse contenere 9 persone e altrettanti bagagli. Quando le valigie erano già state caricate abbiamo realizzato che lo spazio che rimaneva non era neanche vagamente sufficiente per trasportare anche noi.
Eppure, accartocciati e sudati, abbiamo affrontato in questa gabbia di lamiera arrugginita l'intrico inimmaginabile di mezzi di ogni tipo, e chiedendo informazioni ad ogni curva abbiamo raggiunto la YWCA Guest House. Adesso scrivo sotto la furia dei due ventilatori a soffitto, che non riescono ad asciugare il sudore ma procurano una parvenza di aria fresca, che in questo momento sembra manna dal cielo.
Il tassista aveva la barba rossa, l'abbiamo notato tutti, perchè non era il solo. Molti uomini qua se la tingono, cercheremo di capirne il motivo, ma probabilmente è solo una moda.
La prima percezione che ho è quella dell'effimera considerazione che tutti hanno per la vita umana. La guida e la strada non hanno regole, nessun accenno a corsie, precedenze, attraversamenti. C'è una moltitudine di mezzi di trasporto esilarante, che si incastrano a vicenda sfidando ogni legge fisica e riuscendo assurdamente a non scontrarsi procedendo appiccicati e ritmati dal suono incessante dei clacson. E nell'intrico di lamiere elemosinano pochi centimetri di spazio i venditori di ambra (un frutto che intagliano a forma di fiore), pop-corn, pani (acqua) in bottiglia e giornali. Si appendono ai finestrini di autobus iperstipati alla ricerca di compratori, e bussano ai finestrini chiusi del nostro taxi che intrappolano tenacemente i benefici di un'aria condizionata non sperata.

Dacca

I clacson hanno smesso di suonare. Da quando è calato il sole la città si è pian piano ammutolita, si sentono solo suoni sporadici, stanchi dopo una giornata di piena attività. I clacson sono la colonna sonora di questo posto, non esiste un solo istante in cui si acquietano gli amministratori indiscussi di questa improbabile viabilità.
Sono ancora sotto le pale, stasera ho fatto la doccia con mezzo secchio d'acqua fredda, mangiato senza l'uso delle posate e lavato i denti con un bicchiere di acqua bollita. Si può vivere bene (?) anche con poco.


21 settembre

Ridicolo imbarazzo da occidentali. Siamo su un "taxi" a rischiare la pelle e ci si riempiono gli occhi di emozioni. Ma forse è maleducato mettersi a far foto alle persone come se fossero fenomeni da baraccone. Poi un venditore di frutta accovacciato sotto un albero mi punta addosso un cellulare, scatta, e mostrando la foto ai vicini inizia a sogghignare. Proprio ora un "autobus" ha frenato nel bel mezzo di questa strada a quattro corsie per far scendere una mezza dozzina di ragazzi splendidamente sorridenti che hanno accerchiato le nostre macchine e ci scattano fotografie. Ora stanno correndo per risalire sul mezzo che li ha aspettati e può riprendere la marcia. Ci salutiamo. E ci mettiamo a far foto anche noi!

risciò

Credo di sapere tutto su Kaka, ora.


22 settembre

I bambini non si toccano. A piedi scalzi corrono e saltano sui gradini e per i viottoli infangati, calpestano fogni di giornali sporchi di paan, sterco di animali, mattoni sbeccati e avanzi di cibo. Sono in estasi. Ci osservano addentrarci a fatica tra le loro baracche buie e minuscole e ci sgusciano a fianco, tra mura in mattoni che a stento permettono il passaggio a noi, loro si inventano spazi tra le nostre gambe e sotto le borse e l'attrezzatura che ci portiamo dietro. Ci superano solo per voltarsi, guardarci negli occhi e donarci il sorriso più innocente che hanno. Alcuni hanno imparato un paio di frasi in inglese, how are you? e what's your name?, e ce le urlano da ogni angolo, per poi scoppiare a ridere come pazzi. Sono affascinati dalle nostre macchine fotografiche. Si chiamano a vicenda e si stringono ad amici e fratelli in attesa di essere immortalati. Hanno occhi giganti di un colore impressionante, nutriti dalla luce del loro sincero stupore. La visita allo slum di rifugiati pakistani deve concludersi perchè un uomo islamico è infastidito dalla nostra presenza e soprattutto dalle telecamere che riprendono le loro donne. Non serve spiegargli che lo scopo della nostra visita era quello di documentare le fasi del ricamo ari praticato dagli uomini della basti, all'interno di claustrofobiche stanzette buie. La nostra guida è una donna cattolica che si prende cura degli abitanti di questa baraccopoli e si occupa di vendere le loro lavorazioni. Ed è lei che a questo punto ci conduce attraverso il labirinto di passaggi terrosi schivando capre, evitando pozzi fognari profondissimi che si aprono all'improvviso al centro del passaggio e cercando intanto di salutare la moltitudine di gente stipata sulle soglie che tocca timorosa i nostri vestiti e ci inebria di sorrisi. I bambini ce li trasciniamo dietro ancora per un bel po' una volta usciti. Non vogliono che ce ne andiamo, siamo il loro diversivo. Ci stringono in continuazione le mani e una, con la sua infinita dolcezza, vince la timidezza e si appropria del mio braccio camminandomi docilmente a fianco, finchè un uomo non la sgrida e la fa correre con le sue amiche in direzione di casa.

slum


23 settembre

La gente ha troppe esigenze. Forse quando si viaggia bisognerebbe mettere da parte i bisogni materiali. Qua dove gli animi sono così semplici e sopravvivono con il minimo indispensabile quest'attaccamento ai consolidati lussi occidentali lo trovo fuori luogo e arrogante.

Come sempre l'acqua riesce a mettermi in pace con il mondo. Procediamo tranquillamente tra stagni e risaie, la luce è a ogni metro più fioca, e questi specchi d'acqua riposano placidamente nella frescura della sera. Li vedo susseguirsi attraverso il finestrino semiaperto, con i loro isolotti di vegetazione che creano zone d'ombra e offrono riparo agli uccelli. C'è un sentiero che spacca in due una risaia, e una donna con un sari celeste si è seduta a riposare con le gambe raccolte e lo sguardo perso nel vuoto. Dà le spalle alla strada ma è come se riuscissi a vedere l'espressione del suo volto. Vorrei andare a sedermi accanto a lei, condividere il suo silenzio, scendere da questa lussuosa auto con i finestrini oscurati e l'aria condizionata che i miei compagni di viaggio insistono per tenere accesa. Ci è indifferente, ed è questo quello che più mi affascina, un fiore azzurro in una distesa smeraldo, che assapora la solitudine. 
Oggi è stata una giornata commovente. Mi sento al sicuro in questi posti, paradossalmente. La gente è così spontanea e genuina che mi viene istintivo affidarmi completamente a lei. I parenti di Shourov ci hanno accolto nella loro casa con un'infinita dolcezza ed enormi quantità di cibo cucinato da loro. Hanno una bellissima casa, un figlio elegantemente vestito che ci fa da interprete e dice che il suo sogno sarebbe quello di venire a studiare ingegneria a Milano. Sono tutti a nostra totale disposizione, ci scarrozzano in giro per Comilla finchè non otteniamo di essere portati nei villaggi dei tessitori di khadi.

telaio khadi


25 settembre

Non si appoggiano al sellino. Lo hanno ma non lo usano. Pedalano sospesi in aria, alcuni i pedali li sfiorano soltanto. Il lungi sudato aderente al bacino, una camicia logora in totale disaccordo cromatico, sciarpa legata in vita all'occorrenza usata come turbante e sandali consunti e infangati. E' uno spettacolo sensuale vederli destreggiarsi tra dossi, fossi e ostacoli di lamiera arrugginita. Curvano con leggeri colpi d'anca e i più audaci approfittano di ogni sosta per voltarsi, appoggiandosi sulla canna della bicicletta, e tu no puoi fare altro che ricambiare i loro sorrisi, ed essere grata a quegli occhi sinceri che lavano via il senso di colpa derivante dallo sfruttamento fisico. Ieri sera pensavamo di esserci persi. Dopo le 11 di sera le strade si svuotano ed è difficile trovare qualcuno disposto a riportarti a casa sfidando l'oscurità della città, ma i nostri rikscioala ci hanno caricati e umilmente hanno cercato la via del ritorno. Ieri sera si sedevano sul sellino, parlavano tra di loro e ridevano, e a tratti improvvisavano gare per le strade deserte. Mi da un senso di totale sicurezza la purezza di questa gente, ho adorato la familiare sensazione di non ritrovare la via di casa più del solito, avrei girato per ore su quei trabiccoli con l'aria della sera in faccia, godendo della bellezza incontaminata di un corpo madido, di un palazzo diroccato, dei gusci di cocco rimasti ai lati della strada. Quest'ondeggiare sinuoso di gambe magre e lisi tessuti è provocante come i preliminari che precedono un amplesso.

traffico

"lei è già sulla tua onda
e fa che il fiume ti risponda
che da sempre siete amanti"


30 settembre

I bambini hanno comprato la coca cola e ora sono contenti, e si può finalmente tornare a casa. Noi nel frattempo inspiravamo le esalazioni della fogna che costeggia il carcere accerchiati dai soliti sguardi dei curiosi con il sudore che ci colava in gocce appiccicose lungo le gambe. Oggi è venerdì, che qua equivale alla nostra domenica, ma alcune donne sono venute a lavorare lo stesso, anche se non ne avevano voglia, e si vedeva; dopo pranzo ci hanno salutato per ritornare dalle famiglie. 
Il workshop finirà lunedì, ma già oggi faticavamo a trovare a tutte un'occupazione. Abbiamo dato tutti l'anima nei primi giorni, ne son venuti fuori lavori a volte inguardabili, ma nel complesso interessanti, alcuni davvero stupendi. Ho capito perchè è folle pretendere la perfezione nelle finiture quando si parla di mercato equo. Le condizioni di lavoro sono allucinanti e insostenibili per lunghi periodi. Le donne lavorano per terra, su stuoie dilaniate dall'usura a diretto contatto col pavimento di cemento. Il caldo e l'umidità ostacolano i movimenti e impigriscono i pensieri. Questa scomoda abitudine di camminare scalzi a lungo andare provoca dolore ai piedi e li insudicia in modo vomitevole. La Leti dice che non torneranno più del loro colore originario. Mi sa che ha ragione. Poi c'è l'elettricità, o meglio, non c'è! Ti concede sprazzi di attività interrotti da intere ore di black out, in cui i ventilatori si bloccano, il ferro da stiro è inservibile, e se la luce del giorno è insufficiente non si riesce neanche a distinguere i colori, figuriamoci ad infilare un ago. Eppure queste donne si adattano a tutto questo,e ad altro, come ad esempio il tragitto a piedi dal loro villaggio, e l'ostilità delle famiglie, per guadagnare qualche taka, un po' di dignità e scambiarsi pettegolezzi.
Tutto sommato sono state carine con noi, hanno apertamente disprezzato ogni nostra proposta perchè in totale contrasto con il loro gusto e con ciò che hanno sempre prodotto. Le facce schifate e le risatine di scherno alle nostre spalle ormai sono diventate parte del gioco. All'inizio cerchi di ragionare con loro, ma di fronte al netto rifiuto diventi stronza despota e se i tempi devono essere compressi in questi dieci giorni rimane poco spazio per le moine. Non si dovrebbe trattare di imposizione, ma della trasmissione di una nuova estetica globalizzata che possa speranzosamente seppellire lo stereotipo di artigianato del terzo mondo. Ma loro sono cocciute, o orgogliose, o pigre, non te la danno vinta senza lottare. E noi abbiamo lottato. Ora siamo sfinite, mancano ancora un paio di giorni, procederà tutto come deve e con maggior calma adesso, continueremo a coltivare questa promiscuità di sguardi, spinte e sorrisi affettuosi. In fondo ci stiamo affezionando a loro, e loro hanno trasformato la curiosità dei primi giorni in diffidenza, ma la stanno impastando con benevolenza, amicizia e comprensione, come fanno quando mischiano il riso col daal. Tra un po' le rincontreremo a cena, bardate nei loro sari, senza i quali diventano timide e vulnerabili. Ci prenderanno le mani e ci sommergeranno di parole in bengali, convinte che possiamo capirle. E, forse, ormai davvero le capiamo.

workshop


5 ottobre

Allora, nell'ordine. Un'ora di macchina fino al confine, e fin qua tutto bene, a parte la predilezione dell'autista per la guida al cellulare. Dopodichè stazionamento in due tre uffici per il controllo passaporti e la compilazione dei documenti, uno più fatiscente dell'altro. I funzionari ci offrivano patatine e sedie. Carini. Forse speravano invano in una mancia. Tra un edificio e l'altro siamo passati tra cortili abbandonati e passaggi sospetti. Concluso l'attraversamento del confine, fuori dall'ultimo ufficio abbiamo cambiato le taka in rupie, fumato una sigaretta e scattato foto. Poi breve camminata verso i motorikscio che ci attendevano fiduciosi. In uno spazio vitale calcolato per tre persone ci siamo entrati in cinque più quattro bagagli. Quindi ovviamente appena percorsi un paio di metri uno dei due mezzi ha bucato. Assistiamo al cambio di ruota sotto al cartello "obey traffic rules". Puramente decorativo. Ripartiamo. 
Ora siamo sul treno, la stazione era vicina, abbiamo pagato 128 rupie otto biglietti per Calcutta. Il nostro vagone non consente l'ingresso agli uomini. Riccardo è salito su quello successivo.

treno confine


8 ottobre

Domani, o meglio stanotte, partiamo, finalmente!
Calcutta è stata una città difficile. A pensarci l'intero viaggio è stato estenuante, non so dire quanto questa ultima tappa abbia aggravato la situazione, ma sento il corpo pesante, il corpo e i pensieri. Ho voglia di andarmene, ci sono troppe cose a cui dovrei abituarmi, ma non ne ho voglia, sono stanca. Mi manca la civiltà, dei vestiti puliti e soprattutto asciutti e una pedicure. Non ne posso più di sudare, fare attenzione a cosa calpesto, essere stordita dal suono dei clacson e sentire e vedere gente che sputa ad ogni passo.
Voglio un cameriere che mi sorrida spontaneamente e non perchè mi vede come un'attrazione. Ho bisogno che qualcuno capisca quello che dico o almeno si sforzi di farlo.
Questo è un posto complicato, andrebbe vissuto più a lungo, con uno spirito diverso e un'altra compagnia. Per ora non è altro che snervante, e mi spiace, perchè intuisco che è denso di potenziale, si percepisce il dinamismo culturale negli occhi svegli e profondi dei suoi abitanti.
Tra qualche ora torno ai miei soliti giorni. Neanche questa prospettiva mi alletta, ma se non altro potrò tornare a essere pigra. 

fiume