domenica 11 dicembre 2011

io mi sento altro


Io con l'autoritratto non sono guarita, mi sono ribellata. La mia esperienza con l’autoritratto fotografico è nata per caso, almeno apparentemente. Lavoravo come modella, quindi abituata a essere immortalata e a rivedermi in un’immagine scattata da altri. Naturalmente, parlo di foto perfette, dove il corpo è solo un mezzo comunicativo. Un’immagine pubblicitaria non deve essere interpretata o capita, deve rimandare l’idea del bello, del perfetto, del risolto. Deve suscitare il desiderio di avere quell’abito o quella macchina, deve vendere una suggestione. Io stessa guardandomi in quegli scatti non mi riconoscevo. Ho avuto un percorso tortuoso e lungo di anoressia. Un periodo durato quindici anni in cui ho fatto del mio corpo la mia identità. «Piacere sono Anna, sono anoressica». Ho lasciato che per anni il mio corpo fosse la mia identità, un'immagine traballante e smunta che lasciava poco spazio all'interpretazione. Ma non solo. In me c’è sempre stata una domanda. Com’è possibile avere una visione così diversa di me e negarmi completamente, invece, davanti allo specchio? Così ho preso una macchina fotografica e ho iniziato a ritrarmi. Si ha bisogno di vedere il dolore in faccia per riconoscerlo, bisogna averlo proiettato davanti agli occhi. Finché non sei piegato a terra nessuno si ferma. Così io mi sono piegata e ho costretto l'amore a fermarsi. I grassi non piangono, i grassi ridono e fanno i giullari. A ognuno il suo ruolo, e spesso questo ruolo passa attraverso la nostra immagine. Io ero grassa ed ero grassa per lo stesso motivo per cui poi sono diventata anoressica. Non per somigliare a una modella, ma per andarmi a prendere tutto quello che una modella sembra avere o che ci fanno credere che abbia. Attenzione, cura, rispetto. Amore. Ero una bambina che soffriva già di nostalgie, pensavo a quando mio padre sarebbe morto e lo abbracciavo piangendo prima di dormire dicendogli «non morire». Sono cresciuta con un buco nero al centro del cuore e ho cercato di colmarlo con il cibo. Mangiavo per smettere di soffrire, per non sentire quel buco nero che divorava ogni inizio di gioia. All'ennesima pacca sulla spalla, però, ho smesso di mangiare e ho cominciato a digiunare. Più dimagrivo e più gli altri mi vedevano, più sparivo e più gli altri riuscivano perfettamente a focalizzare dove fossi. Questo è uno dei punti più pericolosi di questo male. Perché mentre cercano di farci capire quanto sia sbagliato non mangiare, stiamo ottenendo proprio quell'attenzione che bramiamo e la stiamo ottenendo proprio con quel mezzo che ci dicono essere sbagliato. Se dovessi spiegare brevemente l'anoressia direi che è un'assenza cronica d'amore, è prendere tutto il male del mondo e pensare di esserne la causa e l'effetto allo stesso tempo. È il sentirsi insufficienti all'amore, inadeguati per una vita "perfetta", perennemente a un passo dall'essere felici. Perché quella felicità non la merito, non so curarla. Nelle mie mani muore tutto. Forse nessuno ha avuto tempo per insegnarmi che il concetto di felicità non è univoco. Poi, un giorno, per caso e finalmente, scopro anche la fotografia. Ho appena lasciato mio marito, ho due bambini piccoli da crescere, mio padre è morto. Devo tornare in quel paese da cui sono fuggita. Non c'è nulla da scoprire, conoscere, se non me stessa. Bene. Il primo scatto che mi sono fatta era di prova, il secondo per capire come la luce si riflettesse sulla mia coscia. Non lo sapevo ma stava cominciando un viaggio meraviglioso. Autoritratto fotografico. Pensieri su pellicola. Pensieri sporchi e mal ridotti, pensieri da cui partire per cercare la mia sincerità e il mio perché. Ho guardato l'amore e c’ho visto un cane rabbioso che si attacca all'osso del cuore e mi sono perdonata tutto il male ricevuto. L'ho capito, forse, l'ho provocato anch'io in altri. Ecco, qualcosa si muove. Quella sensazione di disagio non sono io, ma è quello che gli altri mi hanno fatto credere, con modi e parole impercettibili. Un lavoro di anni, di frasi disseminate qua e là. Di insegnamenti subliminali. Io mi sono liberata fotografando le mie occhiaie, le mie tette appese, le mie ossa. Ho aperto quella gabbia di cui spesso ci lamentiamo, che ci uccide ogni giorno, ma che tutti in qualche maniera alimentiamo. La fotografia ha un grande compito.Le donne che fotografano se stesse o altre donne lo hanno. Rendere il proprio senso dell'amore, rendere una visione tridimensionale dell'essere donna. Invece, siamo le prime che «appena ho visto il mio cucciolo e l'ho stretto tra le mie braccia, l'ho amato all'infinito. Perché quando allatto è un momento così speciale». Devo sentirmi un mostro se io, invece, appena l'ho visto ho pensato «E adesso cosa gli racconto?». Ho pensato anche alla bellezza di quello che saremmo diventati, al miracolo di un nuovo amore da far crescere, ma che in quel momento era solo istinto e gioia . E che finalmente le contrazioni erano finite e il mio utero era tornato a una dimensione umana. Poi l'allattamento è stata un'ulteriore prova, perché rivolevo il mio corpo, le mie sigarette, il mio caffè, perché il capezzolo mi faceva male e la mastite mi tormentava. E perché pesavo venti chili di più e mi facevo schifo? E intanto non ero felice. Per niente. Nuova vita, nuove regole, nuovi ritmi. Posso avere il tempo di abituarmi? O intanto che trovo il nuovo equilibrio devo sentirmi in colpa, perché nel cambiare un pannolino non ci trovo niente di poetico? Siamo le prime che non si perdonano, che davanti a un caffè si raccontano balle, una gara a chi ha fatto la vacanza più chic. Guardatevi per prime, non aspettate che qualcuno lo faccia per voi, altrimenti sarete costrette a riconoscervi in una visione parziale, distorta, opportunistica. Per rifiutare tutto questo ho passato anni duri e senza sconti. La fotografia è stata un'amica, un'immagine di me che mi assolveva ogni volta. Ho smesso di guardare gli altri in relazione a me e ho iniziato a guardarmi in relazione agli altri. Ho imparato i miei gusti, ho rispettato i miei tempi, qualche volta non ce la faccio a fare nulla così chiedo ai miei figli di avere pazienza. E loro si sentono liberi di fare altrettanto. Fotografo l'assenza e riporto le persone a casa, mio padre su tutti. Fotografo la ruga, la pelle che sa di sigarette. Questa sono. Fotografo il mio corpo per arrivare a capire una sensazione dentro. Luce, contesto, inquadratura, non sono mai un caso, una ricerca, una premeditazione, sono sempre il risultato di quel momento. Spesso riesco a vedermi solo dopo giorni e giorni , eppure ho imparato a non disperarmi. L'immagine che ho di me, che gli altri hanno di me, s'incontra in questi scatti. Se tutti ammettessero invece di fingere, se tutti ci permettessero invece di esigere, forse ci sentiremmo tutti più belli, ognuno per quello che è davvero. Perché i mostri veri sono quelli che puntano il dito, che ti fanno sentire inadeguata, che ti fanno credere che esista un mondo perfetto, dove le mamme hanno il grembiulino a quadretti rossi e bianchi, dove si fa colazione come nelle pubblicità, dove le tovaglie sono tutte smacchiate, si respira odore di fiori d'arancio in ogni angolo della casa e i mariti tornano a casa stanchi e ci salutano con un bacio. Illusioni dietro le quali si arranca per tutta la vita. Una società in cui le donne non possono invecchiare, ingrassare, dove la lotta alla cellulite è la priorità e nelle pubblicità ci fanno parlare con la tazza del cesso complimentandoci per quanto sia linda e pinta e subito dopo un'altra in cui simuliamo l'orgasmo per vendere un'auto. Io mi sento altro. Niente è più amore che dire «non sono molto, sono quello che vedi, ma questo poco che sono ti ama totalmente». Se l'avessero fatto con me avrei risparmiato anni di vita spesi a cercare quella perfezione che non c'è neanche in chi la esige. E per quanto banale questo concetto possa sembrare, io spenderò il resto della mia vita a diventare quella che sono e a prendere un appunto quotidiano sui miei post it. «Sono già tutto quello che serve per essere amata». Poi se mi rimane del tempo mi spalmo l'anticellulite sulle cosce.

anna fabroni

Anna Fabroni (testo e foto) su Women Mag

mercoledì 23 novembre 2011

tempi duri per il femminismo

non c'è spazio non c'è più spazio non ci sta più niente tutto è già passato devono ancora succedere tutte le cose e già le ho perse forse non voglio camminare se poi non potrò fermarmi e mettere tutto in discussione sarà una valanga sarà così una gigantesca palla rotolante di respiri.
ho paura.
una fottuta paura.
e le dita troppo larghe.
ora conosco il panico e l'inerzia sono nervosa agitata molesta scontrosa ma non voglio che se ne accorgano devono continuare a credere che sia apatica così non faranno domande per cui non ho ancora inventato risposte convincenti non devo parlare per forza se voglio posso guardare per terra e usare la vecchia scusa.
oggi ho bevuto ricordi.
e un po' di Dom Pérignon ma era amaro.
a volte mi chiedo come sarebbe stato nascere nell'altra metà del cielo essere un uomo tornare a casa a piedi a qualsiasi ora della notte non riuscire a capire la malizia l'invidia la superficialità di continue lamentele l'insicurezza estrema forse dovevo nascere uomo avrei apprezzato molte più cose tutte le cose che non sarei riuscito a capire sarei stato indipendente senza dovermene giustificare diretto senza essere acido avrei continuato a guidare allo stesso modo senza sentirmi dire che guido come un uomo mangiare scopare come e quanto volevo senza essere considerato alieno invece di contemplare questa congenita debolezza e sentirmi così lontana e sconcertata dal mio emisfero.
non è più il caso di ostinarsi.
ora qualcosa - se lui vuole - potrebbe cambiare.

libertà

continuerò a farmi scegliere.

"Ho sempre voluto vivere la vita di un uomo nel corpo di una donna" 
Diane von Furstenberg

lunedì 7 novembre 2011

sabato 22 ottobre 2011

diario di un viaggio vischioso e complesso


20 settembre

Oggi siamo arrivati a Dacca, nel giorno dell'anniversario dei miei.
Ci ha assalito una cappa di aria torrida che ha appannato gli obbiettivi delle macchine fotografiche, ci ha tolto il respiro e ha reso appiccicoso ogni minimo movimento.
Tra la ressa e le mani che si intrufolavano attraverso le grate di ferro abbiamo cercato un taxi che potesse contenere 9 persone e altrettanti bagagli. Quando le valigie erano già state caricate abbiamo realizzato che lo spazio che rimaneva non era neanche vagamente sufficiente per trasportare anche noi.
Eppure, accartocciati e sudati, abbiamo affrontato in questa gabbia di lamiera arrugginita l'intrico inimmaginabile di mezzi di ogni tipo, e chiedendo informazioni ad ogni curva abbiamo raggiunto la YWCA Guest House. Adesso scrivo sotto la furia dei due ventilatori a soffitto, che non riescono ad asciugare il sudore ma procurano una parvenza di aria fresca, che in questo momento sembra manna dal cielo.
Il tassista aveva la barba rossa, l'abbiamo notato tutti, perchè non era il solo. Molti uomini qua se la tingono, cercheremo di capirne il motivo, ma probabilmente è solo una moda.
La prima percezione che ho è quella dell'effimera considerazione che tutti hanno per la vita umana. La guida e la strada non hanno regole, nessun accenno a corsie, precedenze, attraversamenti. C'è una moltitudine di mezzi di trasporto esilarante, che si incastrano a vicenda sfidando ogni legge fisica e riuscendo assurdamente a non scontrarsi procedendo appiccicati e ritmati dal suono incessante dei clacson. E nell'intrico di lamiere elemosinano pochi centimetri di spazio i venditori di ambra (un frutto che intagliano a forma di fiore), pop-corn, pani (acqua) in bottiglia e giornali. Si appendono ai finestrini di autobus iperstipati alla ricerca di compratori, e bussano ai finestrini chiusi del nostro taxi che intrappolano tenacemente i benefici di un'aria condizionata non sperata.

Dacca

I clacson hanno smesso di suonare. Da quando è calato il sole la città si è pian piano ammutolita, si sentono solo suoni sporadici, stanchi dopo una giornata di piena attività. I clacson sono la colonna sonora di questo posto, non esiste un solo istante in cui si acquietano gli amministratori indiscussi di questa improbabile viabilità.
Sono ancora sotto le pale, stasera ho fatto la doccia con mezzo secchio d'acqua fredda, mangiato senza l'uso delle posate e lavato i denti con un bicchiere di acqua bollita. Si può vivere bene (?) anche con poco.


21 settembre

Ridicolo imbarazzo da occidentali. Siamo su un "taxi" a rischiare la pelle e ci si riempiono gli occhi di emozioni. Ma forse è maleducato mettersi a far foto alle persone come se fossero fenomeni da baraccone. Poi un venditore di frutta accovacciato sotto un albero mi punta addosso un cellulare, scatta, e mostrando la foto ai vicini inizia a sogghignare. Proprio ora un "autobus" ha frenato nel bel mezzo di questa strada a quattro corsie per far scendere una mezza dozzina di ragazzi splendidamente sorridenti che hanno accerchiato le nostre macchine e ci scattano fotografie. Ora stanno correndo per risalire sul mezzo che li ha aspettati e può riprendere la marcia. Ci salutiamo. E ci mettiamo a far foto anche noi!

risciò

Credo di sapere tutto su Kaka, ora.


22 settembre

I bambini non si toccano. A piedi scalzi corrono e saltano sui gradini e per i viottoli infangati, calpestano fogni di giornali sporchi di paan, sterco di animali, mattoni sbeccati e avanzi di cibo. Sono in estasi. Ci osservano addentrarci a fatica tra le loro baracche buie e minuscole e ci sgusciano a fianco, tra mura in mattoni che a stento permettono il passaggio a noi, loro si inventano spazi tra le nostre gambe e sotto le borse e l'attrezzatura che ci portiamo dietro. Ci superano solo per voltarsi, guardarci negli occhi e donarci il sorriso più innocente che hanno. Alcuni hanno imparato un paio di frasi in inglese, how are you? e what's your name?, e ce le urlano da ogni angolo, per poi scoppiare a ridere come pazzi. Sono affascinati dalle nostre macchine fotografiche. Si chiamano a vicenda e si stringono ad amici e fratelli in attesa di essere immortalati. Hanno occhi giganti di un colore impressionante, nutriti dalla luce del loro sincero stupore. La visita allo slum di rifugiati pakistani deve concludersi perchè un uomo islamico è infastidito dalla nostra presenza e soprattutto dalle telecamere che riprendono le loro donne. Non serve spiegargli che lo scopo della nostra visita era quello di documentare le fasi del ricamo ari praticato dagli uomini della basti, all'interno di claustrofobiche stanzette buie. La nostra guida è una donna cattolica che si prende cura degli abitanti di questa baraccopoli e si occupa di vendere le loro lavorazioni. Ed è lei che a questo punto ci conduce attraverso il labirinto di passaggi terrosi schivando capre, evitando pozzi fognari profondissimi che si aprono all'improvviso al centro del passaggio e cercando intanto di salutare la moltitudine di gente stipata sulle soglie che tocca timorosa i nostri vestiti e ci inebria di sorrisi. I bambini ce li trasciniamo dietro ancora per un bel po' una volta usciti. Non vogliono che ce ne andiamo, siamo il loro diversivo. Ci stringono in continuazione le mani e una, con la sua infinita dolcezza, vince la timidezza e si appropria del mio braccio camminandomi docilmente a fianco, finchè un uomo non la sgrida e la fa correre con le sue amiche in direzione di casa.

slum


23 settembre

La gente ha troppe esigenze. Forse quando si viaggia bisognerebbe mettere da parte i bisogni materiali. Qua dove gli animi sono così semplici e sopravvivono con il minimo indispensabile quest'attaccamento ai consolidati lussi occidentali lo trovo fuori luogo e arrogante.

Come sempre l'acqua riesce a mettermi in pace con il mondo. Procediamo tranquillamente tra stagni e risaie, la luce è a ogni metro più fioca, e questi specchi d'acqua riposano placidamente nella frescura della sera. Li vedo susseguirsi attraverso il finestrino semiaperto, con i loro isolotti di vegetazione che creano zone d'ombra e offrono riparo agli uccelli. C'è un sentiero che spacca in due una risaia, e una donna con un sari celeste si è seduta a riposare con le gambe raccolte e lo sguardo perso nel vuoto. Dà le spalle alla strada ma è come se riuscissi a vedere l'espressione del suo volto. Vorrei andare a sedermi accanto a lei, condividere il suo silenzio, scendere da questa lussuosa auto con i finestrini oscurati e l'aria condizionata che i miei compagni di viaggio insistono per tenere accesa. Ci è indifferente, ed è questo quello che più mi affascina, un fiore azzurro in una distesa smeraldo, che assapora la solitudine. 
Oggi è stata una giornata commovente. Mi sento al sicuro in questi posti, paradossalmente. La gente è così spontanea e genuina che mi viene istintivo affidarmi completamente a lei. I parenti di Shourov ci hanno accolto nella loro casa con un'infinita dolcezza ed enormi quantità di cibo cucinato da loro. Hanno una bellissima casa, un figlio elegantemente vestito che ci fa da interprete e dice che il suo sogno sarebbe quello di venire a studiare ingegneria a Milano. Sono tutti a nostra totale disposizione, ci scarrozzano in giro per Comilla finchè non otteniamo di essere portati nei villaggi dei tessitori di khadi.

telaio khadi


25 settembre

Non si appoggiano al sellino. Lo hanno ma non lo usano. Pedalano sospesi in aria, alcuni i pedali li sfiorano soltanto. Il lungi sudato aderente al bacino, una camicia logora in totale disaccordo cromatico, sciarpa legata in vita all'occorrenza usata come turbante e sandali consunti e infangati. E' uno spettacolo sensuale vederli destreggiarsi tra dossi, fossi e ostacoli di lamiera arrugginita. Curvano con leggeri colpi d'anca e i più audaci approfittano di ogni sosta per voltarsi, appoggiandosi sulla canna della bicicletta, e tu no puoi fare altro che ricambiare i loro sorrisi, ed essere grata a quegli occhi sinceri che lavano via il senso di colpa derivante dallo sfruttamento fisico. Ieri sera pensavamo di esserci persi. Dopo le 11 di sera le strade si svuotano ed è difficile trovare qualcuno disposto a riportarti a casa sfidando l'oscurità della città, ma i nostri rikscioala ci hanno caricati e umilmente hanno cercato la via del ritorno. Ieri sera si sedevano sul sellino, parlavano tra di loro e ridevano, e a tratti improvvisavano gare per le strade deserte. Mi da un senso di totale sicurezza la purezza di questa gente, ho adorato la familiare sensazione di non ritrovare la via di casa più del solito, avrei girato per ore su quei trabiccoli con l'aria della sera in faccia, godendo della bellezza incontaminata di un corpo madido, di un palazzo diroccato, dei gusci di cocco rimasti ai lati della strada. Quest'ondeggiare sinuoso di gambe magre e lisi tessuti è provocante come i preliminari che precedono un amplesso.

traffico

"lei è già sulla tua onda
e fa che il fiume ti risponda
che da sempre siete amanti"


30 settembre

I bambini hanno comprato la coca cola e ora sono contenti, e si può finalmente tornare a casa. Noi nel frattempo inspiravamo le esalazioni della fogna che costeggia il carcere accerchiati dai soliti sguardi dei curiosi con il sudore che ci colava in gocce appiccicose lungo le gambe. Oggi è venerdì, che qua equivale alla nostra domenica, ma alcune donne sono venute a lavorare lo stesso, anche se non ne avevano voglia, e si vedeva; dopo pranzo ci hanno salutato per ritornare dalle famiglie. 
Il workshop finirà lunedì, ma già oggi faticavamo a trovare a tutte un'occupazione. Abbiamo dato tutti l'anima nei primi giorni, ne son venuti fuori lavori a volte inguardabili, ma nel complesso interessanti, alcuni davvero stupendi. Ho capito perchè è folle pretendere la perfezione nelle finiture quando si parla di mercato equo. Le condizioni di lavoro sono allucinanti e insostenibili per lunghi periodi. Le donne lavorano per terra, su stuoie dilaniate dall'usura a diretto contatto col pavimento di cemento. Il caldo e l'umidità ostacolano i movimenti e impigriscono i pensieri. Questa scomoda abitudine di camminare scalzi a lungo andare provoca dolore ai piedi e li insudicia in modo vomitevole. La Leti dice che non torneranno più del loro colore originario. Mi sa che ha ragione. Poi c'è l'elettricità, o meglio, non c'è! Ti concede sprazzi di attività interrotti da intere ore di black out, in cui i ventilatori si bloccano, il ferro da stiro è inservibile, e se la luce del giorno è insufficiente non si riesce neanche a distinguere i colori, figuriamoci ad infilare un ago. Eppure queste donne si adattano a tutto questo,e ad altro, come ad esempio il tragitto a piedi dal loro villaggio, e l'ostilità delle famiglie, per guadagnare qualche taka, un po' di dignità e scambiarsi pettegolezzi.
Tutto sommato sono state carine con noi, hanno apertamente disprezzato ogni nostra proposta perchè in totale contrasto con il loro gusto e con ciò che hanno sempre prodotto. Le facce schifate e le risatine di scherno alle nostre spalle ormai sono diventate parte del gioco. All'inizio cerchi di ragionare con loro, ma di fronte al netto rifiuto diventi stronza despota e se i tempi devono essere compressi in questi dieci giorni rimane poco spazio per le moine. Non si dovrebbe trattare di imposizione, ma della trasmissione di una nuova estetica globalizzata che possa speranzosamente seppellire lo stereotipo di artigianato del terzo mondo. Ma loro sono cocciute, o orgogliose, o pigre, non te la danno vinta senza lottare. E noi abbiamo lottato. Ora siamo sfinite, mancano ancora un paio di giorni, procederà tutto come deve e con maggior calma adesso, continueremo a coltivare questa promiscuità di sguardi, spinte e sorrisi affettuosi. In fondo ci stiamo affezionando a loro, e loro hanno trasformato la curiosità dei primi giorni in diffidenza, ma la stanno impastando con benevolenza, amicizia e comprensione, come fanno quando mischiano il riso col daal. Tra un po' le rincontreremo a cena, bardate nei loro sari, senza i quali diventano timide e vulnerabili. Ci prenderanno le mani e ci sommergeranno di parole in bengali, convinte che possiamo capirle. E, forse, ormai davvero le capiamo.

workshop


5 ottobre

Allora, nell'ordine. Un'ora di macchina fino al confine, e fin qua tutto bene, a parte la predilezione dell'autista per la guida al cellulare. Dopodichè stazionamento in due tre uffici per il controllo passaporti e la compilazione dei documenti, uno più fatiscente dell'altro. I funzionari ci offrivano patatine e sedie. Carini. Forse speravano invano in una mancia. Tra un edificio e l'altro siamo passati tra cortili abbandonati e passaggi sospetti. Concluso l'attraversamento del confine, fuori dall'ultimo ufficio abbiamo cambiato le taka in rupie, fumato una sigaretta e scattato foto. Poi breve camminata verso i motorikscio che ci attendevano fiduciosi. In uno spazio vitale calcolato per tre persone ci siamo entrati in cinque più quattro bagagli. Quindi ovviamente appena percorsi un paio di metri uno dei due mezzi ha bucato. Assistiamo al cambio di ruota sotto al cartello "obey traffic rules". Puramente decorativo. Ripartiamo. 
Ora siamo sul treno, la stazione era vicina, abbiamo pagato 128 rupie otto biglietti per Calcutta. Il nostro vagone non consente l'ingresso agli uomini. Riccardo è salito su quello successivo.

treno confine


8 ottobre

Domani, o meglio stanotte, partiamo, finalmente!
Calcutta è stata una città difficile. A pensarci l'intero viaggio è stato estenuante, non so dire quanto questa ultima tappa abbia aggravato la situazione, ma sento il corpo pesante, il corpo e i pensieri. Ho voglia di andarmene, ci sono troppe cose a cui dovrei abituarmi, ma non ne ho voglia, sono stanca. Mi manca la civiltà, dei vestiti puliti e soprattutto asciutti e una pedicure. Non ne posso più di sudare, fare attenzione a cosa calpesto, essere stordita dal suono dei clacson e sentire e vedere gente che sputa ad ogni passo.
Voglio un cameriere che mi sorrida spontaneamente e non perchè mi vede come un'attrazione. Ho bisogno che qualcuno capisca quello che dico o almeno si sforzi di farlo.
Questo è un posto complicato, andrebbe vissuto più a lungo, con uno spirito diverso e un'altra compagnia. Per ora non è altro che snervante, e mi spiace, perchè intuisco che è denso di potenziale, si percepisce il dinamismo culturale negli occhi svegli e profondi dei suoi abitanti.
Tra qualche ora torno ai miei soliti giorni. Neanche questa prospettiva mi alletta, ma se non altro potrò tornare a essere pigra. 

fiume

martedì 19 luglio 2011

la Custode dElla cLessIdra

lampione

ho l'impressione che più sento il bisogno di esprimermi,
e più non trovo le parole per farlo..
da dove parto?
sta succedendo di tutto
e tutto insieme
e tutto troppo in fretta
e tutto troppo intensamente
.. tutto.
..troppo.

non voglio banalizzare le sensazioni
forse, se le parole non nascono spontanee, bisogna lasciarle in pace.
non cercherò di stanarle, lascerò che questa linfa continui a scorrere silenziosa e aspetterò il giorno in cui si impadronirà delle mie vene.

da bambina quando mi facevano male le ginocchia mia mamma diceva che era perchè stavo crescendo, e le ossa si stavano allungando.
sento ancora lo stesso dolore.

venerdì 10 giugno 2011

delizie in solitaria

succede sempre così, partendo dai peggiori presupposti va a finire che si scoprono nuovi sapori.
c'è da dire che io e il mio frigo abbiamo una forte affinità spirituale e una perfetta corrispondenza di intenzioni, ma stasera è avvenuto uno dei nostri più intensi idilli.

..la mezza cipolla rossa che era avanzata dall'ultimo soffritto, cinque ciliegini superstiti in fondo al ripiano, e la preziosa concessione di una porzione di orecchiette fresche.. come a dire: non mi aspettavo di vederti, ma in fondo ci speravo..
..io, dal canto mio, non ero nelle condizioni di poter pretendere: tuta sgualcita, turbante in testa e piedi sporchi a forza di zampettare scalza.

ma avevo un'immagine che mi galleggiava ancora in testa, il mio organismo richiedeva carboidrati e mi stavo volendo particolarmente bene..

orecchiette con cipolle rosse in agrodolce e filetti di pomodoro

e così fu: orecchiette con cipolle rosse in agrodolce e filetti di pomodoro!
..l'amore esiste!

domenica 22 maggio 2011

ultima preghiera

credo di non sopportare più questo vittimismo.
qualcuno diceva: siamo quel che facciamo.
evidentemente lo diceva a bassa voce,
o eravate voi che non eravate attenti.

struggetevi sulle conseguenze delle vostre stesse azioni,
circondatevi di alibi, asciugatevi lacrime d'aria,
rifugiatevi come i conigli nella vostra precaria tana..

io scendo, sono stanca di remare per voi.
vi lascio sulla vostra squallida bagnarola, aspettando che vi sorprenda la tempesta.
almeno avrete una ragione reale per compiangere il vostro triste destino.

o, nel peggiore dei casi, imparerete a lottare contro il vento.

vittimismo

sabato 7 maggio 2011

tempo di fave e asparagi, giochi infantili e contraddizioni

oggi sono in ritardo.
non posso farne a meno,
ho qualcosa da fare:
devo entrare nelle vite di altra gente.

domani sarò in ritardo.
sento che non potrò farne a meno,
avrò di nuovo qualcosa da fare:
dovrò interpretare questo silenzio.

ritardo

venerdì 29 aprile 2011

omaggio

"come mai bevi così tanto caffè?"
"per restare sveglia"
"una volta ti piaceva dormire.."
"mi piace ancora molto, e se potessi lo farei di più.. ci sono tante cose che farei, se potessi ancora.."
"e comunque a me sembra acqua sporca.."
"assaggialo, gli ho aggiunto un po' di cannella!"
"lo sai che non mi piace, non mi è mai piaciuta, mi ricorda il natale e le bucce d'arancia che si disidratano sui caloriferi"

stava diventando malinconico, me ne accorgevo dal modo in cui zigzagava con lo sguardo per la stanza, come se stesse cercando di seguire la scia di un riflesso fugace.. in quei momenti preferiva non guardarmi negli occhi, e se lo faceva non vi si soffermava a lungo, diceva che avevo l'anima pesante, ma il senso delle sue parole non mi è mai stato chiaro..

"ne hai fatto troppo, non lo finirai mai"
"mi piace tenerlo tra le mani, mi fa compagnia.. non voglio finirlo, voglio che duri il più possibile.."

mi rendevo conto che più crescevo e più ripescavo dal passato i miei piccoli riti intimi, stavo rimparando il rispetto per il mio tempo, quel poco tempo che riuscivo a passare da sola, in pace, e tutto questo mi gratificava forse più di quanto avrebbe dovuto. come quando uno sconosciuto ti offre il suo ombrello durante un temporale.. non è niente di che, ma con quel piccolo gesto di cura leviga gli spigoli dei momenti più aspri.
a me piaceva l'idea della tazza tra le mani.. le mie mani che erano sempre piene di graffi, di inchistro, non più quello dei timbri dei locali ma quello della mia bic che tentava invano di ricordarmi ciò che la mia agenda non poteva contenere. anche loro avevano bisogno ogni tanto di un gesto di affetto. avvicinai la brodaglia fumante al naso e mi venne da chiudere gli occhi, mentre mandavo giù un sorso bollente che mi ripulì i pensieri e mi inumidì i sensi.
quando tornai al presente fui io a fissarlo.

"fammelo assaggiare" mi disse, chiudendo le sue mani sulle mie, che custodivano il calore di quel momento.

giovedì 14 aprile 2011

la cosa più difficile

mantengo la testa alta,
calibro le parole, ma non troppo
seguo la mia strada
resto avvinghiata alle mie certezze

se qualcuno si ferirà.. non mi importa
non posso cambiare per te

venerdì 1 aprile 2011

martedì 22 marzo 2011

il peso delle parole

credo che il problema sia di linguaggio.
oltre che di sensibilità.
ma soprattutto di linguaggio.

il pudore non va più di moda, e le bocche si spalancano troppo spesso, e a sproposito, forti della consapevolezza che ormai tutto viene tollerato, che ogni pensiero è già stato sdoganato.

l'abuso delle parole ne uccide il significato, il cedere velocemente alle definizioni rischia di non farcene conoscere il valore.

chi fomenta le masse, chi non calibra il tono in base alla posizione che occupa..
chi si definisce innamorato, chi si definisce amico, chi ti definisce stronza..
chi fa battute fuori luogo, chi parla con malizia ed egoismo..
chi si crede superiore, chi non si sforza neanche di farsi comprendere, chi sbiascica..

chiunque stia banalizzando l'essenza delle cose.. bè, è al passo con i tempi!
sono io che, come al solito, rimango indietro.


Capita
che tutto non basta
perdere
tutto ciò che resta

Capita
che qualcosa resta
e non sai
cosa voglia dire

la semplicità
la semplicità
nelle cose che ami
per le cose che ami
la semplicità
la semplicità
nelle cose che ami
per le cose che ami

Mille strade
cieli aperti
sopra
la realtà

Capita
quando sei vestito
credere
di spogliare il mondo

ma la semplicità
la semplicità
nelle cose che ami
per le cose che ami
ma la semplicità
la semplicità
nelle cose che ami
per le cose che ami

Mille strade
cieli aperti
sopra
la realtà

ma la semplicità
la semplicità
la semplicità
la semplicità
nelle cose che ami
per le cose che ami
nelle cose che ami
per le cose che ami

E non sai
cosa voglia dire
la semplicità
la semplicità
per
me

sabato 5 marzo 2011

Dio creò la musica..

..e dopo creò l'uomo, la donna, e tutto il resto..
Ma prima creò la musica, perchè sapeva che senza di lei nessuna forma di vita sarebbe mai stata possibile.
In lei sono racchiusi tutti i sentimenti che una persona potrà mai provare, è la sintesi suprema degli sguardi degli amanti, delle consolazioni dei soli, delle ribellioni degli oppressi, della poesia dei deboli, del pianto dei duri, e di qualsiasi altra espressione intima che mai in altro modo si riuscirebbe a tradurre.

Chi ti regala una canzone ti sta trasformando in un essere migliore.

domenica 27 febbraio 2011

Tra Cromoterapia e Sensi di Colpa


strano come periodo.. incerto, instabile, indefinibile.
mi manca il tempo di vivere, è tutto troppo intenso, troppo vischioso e opprimente.
ho le mani legate, il mondo mi passa accanto ma io non posso afferrarlo.. devo acuire la vista, o rischio di non accorgermi neanche della direzione che sta prendendo, nel caso prima o poi sarò in grado di seguirlo.. da lontano, si intende.
quante cose ancora dovrò sentirmi rinfacciare prima di crollare? gli altri non potranno capire per sempre, presto si stancheranno di giustificarmi, sento che qualcuno già perde la pazienza, che involontariamente mi ferisce, che non si rende già più conto di quanto io sia dilaniata.

il mio tronco ha una violenta spaccatura al centro, mi hanno detto.. ma i rami si allungano ostinati verso il cielo e le radici sono quantomeno intuibili..
eccomi, appena pensavo di aver raggiunto il mio equilibrio scopro che non sono mai stata così confusa.. dannato arancione!


domenica 23 gennaio 2011

cuore di nebbia



"Solo chi impara a viverla può amare Milano.
Gli altri continueranno a lamentarsi del tempo."