Circola sul web una geniale campagna di provocazione che denuncia lo sfruttamento di coloro che oggi vengono genericamente catalogati come 'creativi', realizzata dal collettivo Zero, introdotta dall'hashtag #coglioneNo, e all'istante condivisa sui social da coloro che si identificano con la categoria in questione. Che sono (siamo) moltissimi.
Danno sempre un senso di liberazione e di auto-assoluzione queste iniziative, fanno prendere coscienza in modo istantaneo di quanto la propria condizione di frustrazione e mortificazione, o di disagio generale, sia comune a molti, e così sembra meno grave, meno persecutoria, e meno spaventosa.
Un grido di ribellione a più voci solitamente infonde forza, fa sentire parte di una minoranza coesa che può trarre energia e coraggio dalla solidarietà e dal mal comune.
Ma mi rendo conto che la stirpe degli ormaisifaperdire-giovani in attesa di una realizzazione lavorativa che legittimi i loro sforzi/studi/sacrifici e menate varie, ha sviluppato un atteggiamento vittimista e scoraggiato, l'attitudine originale e poco costruttiva a lamentarsi delle difficoltà adagiandosi su di esse, sfruttandole come alibi per alimentare una pigrizia mentale e produttiva che si rinvigorisce proprio nel confronto con i compagni di sventura. "Se tanto dicono che non c'è lavoro, cosa lo cerco a fare?" Una cosa così. O anche, il molto gettonato: "Non posso sperare di trovare qualcosa di meglio, meglio accontentarsi."
Va a finire che la ricerca del lavoro, qualunque esso sia, diventa un passatempo affrontato con poca convinzione, giusto per calmare i rimorsi di coscienza e potersi crogiolare nel compatimento generale. E intanto le statistiche sparano percentuali sul tasso di disoccupazione giovanile, fomentando la sindrome vessatoria e la disperazione. Ma tralasciando la responsabilità enorme di chi viene visto solo come vittima.
Tra chi ingrossa le fila dei precari e dei disoccupati probabilmente solo una parte, seppur consistente, è il reale e indiscusso risultato del catastrofico momento, e poi ci sono altre due categorie.
Una è costituita da quelli che fanno gli schizzinosi sull'orario del colloquio, sul fatto che la sede è troppo lontana da casa e che "mi richiami verso sera che ora non ho modo di controllare l'agenda". Ma oltre ad essere odiosi e a falsare le statistiche, non nuocciono più di tanto al resto della comunità, o quantomeno non più che a se stessi.
Chi invece non ha proprio motivo di piangersi addosso sono quelli che si comportano nel modo opposto, che hanno fatto dell'umiltà e della prostrazione uno stile di vita estremo.
Quelli a cui va bene lavorare anche gratis. I patiti del volontariato insomma. E non funziona il ragionamento 'se a loro va bene così a te cosa te ne frega', perché frega, moltissimo, a tutti quanti. Finché ci sarà chi permette che il suo lavoro non venga remunerato, per qualsiasi ragione, anche la più nobile, tutti gli altri avranno un potere contrattuale inesistente, oltre ad una collezione di umiliazioni più o meno velate. E il meccanismo continuerà a girare sempre nel verso sbagliato, finché la cosa non verrà regolamentata, quindi, facendo un rapido calcolo, mai.
Lungi da me giustificare datori di lavoro schiavisti che la notte riescono anche a prendere sonno, ma se il mio vicino di casa produce un ottimo Nero d'Avola e me ne regala una bottiglia al mese, difficilmente andrò in enoteca a comprarmelo. Impiegherò i miei risparmi per qualcos'altro. E già che ci sono me ne bullerò anche.
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